Mi sono sempre piaciuti i percorsi.

Che non sono viaggi.

In un percorso si segue un sentiero e si prova un’esperienza. In un viaggio si può facilmente rimanere sulla superficie dell’esperienza.

Mi piacciono gli scrittori che fanno fare un percorso con la loro storia e fanno sentire ciò che hanno provato.

Il mio amico Avrel Seale, scrittore e musicista, ci propone un percorso interessante con il suo libro With One Hand Tied behind My Brain: A Memoir of Life after Stroke, dove racconta con ironia, divertimento, arguzia e poesia ciò che accade nel dramma di un infarto.

Estratti dal libro:

Tutto ciò che possiamo fare è diventare un modello. E questo è tutto ciò che potevo fare io, in modo che se, Dio non volesse, uno dei miei figli avesse avuto un incidente, avrebbe potuto ricordare come era stato il suo vecchio – come si era rialzato e aveva ripreso a lavorare. E come, quando l’ictus aveva cercato di portargli via la mano destra, gli ha aveva mostrato il dito medio con la sinistra.

La cosa che distingueva un bravo infermiere era la capacità di vedere le mie reali esigenze, di andare oltre il protocollo. Sentivo molta frustrazione nel dover spiegare la mia situazione più e più volte…
Il mio infermiere preferito era Richard, della mia età, di Lake Charles, in Louisiana. Mi ha catturato…
Mi ha trattato con il massimo rispetto e gentilezza, come suo pari intellettuale. Ma per troppi altri, il protocollo era l’alfa e l’omega.

Stavo imparando una cosa sorprendente: che le mie cure erano gestite da una specie di dottore che non sapevo nemmeno esistesse, un dottore che era parte della mia compagnia di assicurazione sanitaria. Vale a dire, tutte le decisioni finali sui miei trattamenti – ciò che era permesso e ciò che era negato – sono state prese da persone che non mi avevano mai nemmeno visto. Approfondiamo per un momento. In effetti, c’era una perfetta correlazione inversa tra la familiarità di una persona con me e il suo potere di influenzare il mio trattamento: i terapisti che mi conoscevano di gran lunga meglio di tutti avevano la minima voce in capitolo sulla durata o il ritmo dei miei trattamenti. Ho scoperto che la compagnia di assicurazioni aveva un medico interno solo quando il dottor Li, un uomo senza volto e senza forma, negava la copertura delle spese per la fase successiva del recupero come “non necessaria dal punto di vista medico”.

All’inizio mi riferivo alla mia mano destra in vari modi, di solito intesi ad alleviare la situazione. Uno di questi soprannomi era “zampa di scimmia”. Questo di solito provocava una risata consapevole nei miei compagni di ictus, poiché ognuno ne aveva una propria. Ma a Kirstin [mia moglie] non è piaciuta l’associazione, neanche un po’, e me l’ha detto. All’inizio mi sono innervosito. Era la mia mano; perché non avrei dovuto chiamarla zampa di scimmia o qualsiasi altra cosa mi piacesse? Non ha funzionato! Ho sentito come mi accarezzava dolcemente la mano, la guardava con affetto, a volte addirittura le parlava direttamente con dolci parole di incoraggiamento e di sostegno. Era la prima volta che potevo considerare di avere mancato di rispetto a una parte del mio corpo. Ben presto, ho capito che Kirstin aveva ragione. Ho smesso di sforzarmi di essere il signor Irriverenza e per la mia mano destra mi sono limitato a un soprannome di valore neutro che aveva aleggiato all’inizio del processo e che sembrava piacerle, “Pancho”, perché, beh, lo puoi intuire.

Ho anche notato che nessuno dei terapeuti usava la parola “aiutare”; era sempre “assistere”, “offrire assistenza”. In qualità di scrittore della scuola di Orwell e difensore della virtù del semplice inglese, ero contrario a questo genere di eufemismi. L’aiuto è un “aiuto”. “Braccio” è una parola perfettamente sufficiente. Una caduta è una “caduta”, non un “trasferimento a terra”. Ancora una volta, queste cose venivano dette con le migliori intenzioni, ma erano sciocchezze e spostavano solamente il traguardo, ritardando la comprensione. Chiaramente, questo faceva parte del loro addestramento, ma era follia.

Un proverbio giapponese dice: “Nana karaobi ya oki”, 7 volte cadi, 8 volte rialzati. Dobbiamo sempre essere pronti a rialzarci una volta in più se necessario. Avrel l’ha fatto ed è stato una grande ispirazione per tutti noi.

Ogni volta che cadiamo, dobbiamo essere pronti a rialzarci. Con la testa alta.

Avrel (a sinistra) continua a fare stretching e a migliorare a diciannove mesi dall’ictus. Qui è con il direttore dei servizi di fisioterapia, Gracie.

 

With One Hand Tied behind My Brain: A Memoir of Life after Stroke di Avrel Seale